La vicenda Telecom è la metafora delle privatizzazioni italiane

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La vicenda della cessione di Telecom non ci sorprende perché rappresenta l’inevitabile conclusione delle disastrose scelte di politica economica che hanno comportato il più imponente piano di privatizzazioni mai attuato in Europa.
L’ex società telefonica di stato, privatizzata nel ’97 dal governo Prodi, venne inizialmente acquistata da un gruppo di imprenditori italiani con a capo gli Agnelli che ne prese il controllo con il solo 6,6% del capitale. Due anni dopo tentò la scalata Roberto Colaninno insieme ad altri “arditi” che andò in porto grazie all’appoggio politico dell’allora presidente del consiglio D’Alema ma, il gruppo, privo di risorse, riuscì nell’impresa solo con il ricorso ad un maxi finanziamento di 116.000 mld di £ che ne provocò il pesante indebitamento che continua tutt’oggi a condizionarla. Nel 2001 è la volta di Tronchetti Provera, con l’appoggio del governo Berlusconi, a prendere le redini di Telecom e a procedere alla incorporazione di Tim caricandola di nuovi debiti. Infine, nel 2007, Telco, una nuova società italo-spagnola composta da Mediobanca, Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo, Sintonia e Telefónica, rileva il 22,4% di Telecom. Arriviamo quindi ai giorni nostri quando le controllanti italiane, di fronte all’inevitabile declino dell’azienda, trovano l’accordo per la cessione a Teleófnica delle loro quote in Telco. E’ questa la parabola di Telecom, importante azienda di stato, che da terzo gestore telefonico dell’U.e, si trova ridimensionata ad operatore continentale marginale, sotto tentativo di scalata da parte di una società spagnola, anch’essa fortemente indebitata. Dal litigioso salotto politico nazionale ora si levano inconcepibili dichiarazioni di preoccupazione sulle sorti di Telecom che, insieme alla rete infrastrutturale delle telecomunicazioni, rischia di finire in mani estere, con grave danno per l’economia nazionale, se il governo non interverrà d’urgenza con qualche provvedimento legislativo tampone.
Sembra che si siano svegliati soltanto ora dal letargo dopo che i loro stessi governi hanno decretato la chiusura dell’Iri comportando la vendita a prezzi di saldo di aziende dal valore strategico inestimabile come Italsider, Sme, Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Ina, Autostrade Spa, solo per citarne alcune. Di aziende dal profilo strategico in mano al Tesoro è rimasto solo una quota di Finmeccanica, Eni ed Enel. Tutto il resto è andato perso. Un numero rilevante di queste aziende sono finite nelle mani straniere ma, anche di questo, sembra si accorgano solo adesso. Citiamo, fra i tanti, tre casi: l’ex Alumix acquistata nel 1995 dall’americana Alcoa, chiusa e delocalizzata in Arabia Saudita lo scorso anno, lasciando l’Italia totalmente priva dell’industria dell’alluminio dopo aver ottenuto 3 miliardi di euro di sovvenzioni dallo stato; la Nuovo Pignone, leader mondiale nella produzione di turbine a gas, passata nel 1993 nelle mani della statunitense General Elettric e le Acciaierie di Piombino che dopo esser state cedute a Lucchini nel 1992, sono finite nel 2005 al gruppo russo Servestal che le sta portando verso la chiusura.
Le ex aziende pubbliche controllate da imprenditori italiani non hanno, tuttavia, avuto miglior sorte; è alla ribalta da oltre un anno il caso dell’Ilva di Taranto che acquistata, a prezzo stracciato, dalla famiglia Riva nel 1995, ha continuato a produrre e a conseguire cospicui utili, senza effettuare alcun investimento in campo ambientale e della sicurezza del lavoro, diffondendo morte e malattie fra la popolazione e gli operai. Il sequestro è stata l’inevitabile conclusione di questa incredibile vicenda della storia industriale italiana che rappresenta la pagina più nera delle dismissioni pubbliche. Visti gli sviluppi giudiziari e le ritorsioni dei Riva, l’Italia rischia seriamente di perdere il più importante impianto siderurgico europeo.
Tutto ciò è avvenuto in Italia, ecco perché le preoccupazioni sulle sorti della telefonia italiana sollevate dall’inetta classe politica italiana sono intrise di ipocrisia. Sia il centrodestra che il centrosinistra, non solo hanno sempre sostenuto a spada tratta la politica delle privatizzazioni ma, sono stati incapaci di valutarne le negative ricadute occupazionali e industriali. Da quando è stata intrapreso tale politica, abbiamo perso il controllo dei settori strategici dell’economia a vantaggio di gestioni di rapina, che hanno impoverito gli asset pubblici e decretato l’invitabile declino industriale ed economico, iniziato ben prima della crisi del 2008.
Rifondazione comunista ha sempre contrastato queste politiche perché eravamo consapevoli quale fossero gli effetti che avrebbero prodotto: quando staccammo la spina al governo Prodi lo facemmo perché era per noi insostenibile continuare su quella strada. Dal momento che risulta inconfutabile a tutti quali siano i danni del “modello di sviluppo” che hanno perseguito, chiediamo al governo di non procedere con la vendita delle poche aziende rimaste in Finmeccanica, a partire da Ansaldo Energia, Ansaldo Sts e Ansaldo Breda che hanno già compratori stranieri alle calcagna. Errare ancora sarebbe diabolico e alla fine, le forze politiche implicate dovranno prendersi le loro responsabilità per aver ostinatamente continuato a perseguire la strada sbagliata, fino a condurci tutti nel baratro.

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